Malattia e arte

A cura di Sofia Ravetta, 5AL

Esiste una connessione tra arte e malattia mentale? 

L’idea che la malattia mentale possa aumentare o diminuire la creatività di una persona è sicuramente il più controverso di tutti gli argomenti relativi a una possibile connessione tra arte e malattia mentale: gli esperti ritengono che alcuni studi, come ad esempio quelli che coinvolgono sostanze chimiche cerebrali come la dopamina, provino che esiste una relazione tra creatività e malattia mentale. 

In ogni modo, che sia creata per scopi estetici o utilitaristici, un’opera d’arte è determinata non solo dall’abilità tecnica coinvolta nella sua creazione, ma anche e soprattutto dalla mente dell’artista o dell’artigiano. Che si tratti di musica, letteratura o arte visiva, lo spirito e il genio dell’artista influenzano profondamente ciò che le sue mani, con la penna o il pennello, imprimono sul manoscritto o sulla tela. Se la mente è turbata, dobbiamo aspettarci che ciò si manifesti nella poesia o nel dipinto. 

Similmente, come possiamo non aspettarci che lo stato mentale del lettore o di un visitatore di un museo possa influire sul modo in cui interagisce con un’opera d’arte? 

L’interazione con l’arte e la produzione artistica come strumenti della diagnosi 

La relazione tra la malattia mentale e l’arte è stata studiata da ricercatori medici e non: di particolare interesse per i medici è l’idea che questa relazione renda possibile una diagnosi psichiatrica più approfondita del normale. Le possibili associazioni che il medico può considerare sono due: la forma data all’arte dal paziente come artista, oppure l’interpretazione dell’arte data dal paziente come osservatore. 

Il più noto sfruttamento di quest’ultima idea è probabilmente il test ideato da Hermann Rorschach nel 1921: a una persona viene chiesto di descrivere ciò che vede in dieci macchie d’inchiostro (“arte”, in questo particolare contesto); le descrizioni vengono poi utilizzate per definire le caratteristiche della personalità dell’individuo o per formulare una diagnosi. Il test non è però sufficientemente standardizzato, e quindi generalmente non e’ ritenuto molto affidabile. 

Allo stesso modo, il medico puo’ considerare il soggetto, il motivo o il modo di esecuzione di una particolare opera d’arte come espressioni specifiche di una particolare malattia mentale: un paziente schizofrenico dipingerebbe o scolpirebbe in modo diverso da un paziente maniacale o depressivo, e le caratteristiche del dipinto o della scultura consentirebbero quindi una diagnosi di schizofrenia o di psicosi maniaco-depressiva.

Le Verità Nascoste di Vincent Van Gogh 

Vincent Willem Van Gogh, pittore olandese tra i più influenti del ventesimo secolo, ebbe una vita sofferta e solitaria, ancora oggi ricca di verità nascoste e irrisolte legate alle fasi più importanti della sua vita. 

Nacque il 30 marzo del 1853, esattamente un anno dopo la nascita del fratello maggiore nato morto, inizialmente chiamato Vincent; il fratello morto venne sepolto in una tomba in cui appare la scritta “Vincent Van Gogh, 30 marzo 1852”: sarà proprio qui che Vincent, ancora bambino, troverà il proprio nome scritto sopra una lapide, evento che lo perseguiterà per il resto della sua vita; quella del pittore sara’ infatti una storia all’insegna del disagio, della solitudine e dei disturbi psichici. 

Nei due ospedali psichiatrici in cui è stato ricoverato, i medici hanno ritenuto che Vincent fosse affetto da epilessia: i sintomi manifestati da Vincent erano associati ad allucinazioni visive e uditive intollerabili; in seguito si è giunti alla conclusione che probabilmente si trattava di un’epilessia solo parziale. 

Per quanto riguarda la causa degli attacchi epilettici, quella più probabile sembra essere l’abuso di assenzio: il forte alcolico può infatti causare una percezione del colore distorta, nota come discromatopsia; alcuni critici sostengono ritengono di far risalire l’origine del colore giallo di Van Gogh a questo difetto visivo : tonalità luminose e solari tipiche delle opere realizzate dall’artista ad Arles. 

Oltre 150 psichiatri hanno tentato di classificare i disturbi di Van Gogh in base all’analisi delle sue tele: il risultato fu una diagnosi dei trenta malattie diverse tra cui schizofrenia, disturbo bipolare, sifilide, avvelenamento da ingestione di vernici, epilessia, malnutrizione, lavoro eccessivo, insonnia e abuso di assenzio. Alcuni studiosi hanno poi ipotizzato che l’ossessione di Vincent per il colore giallo, presente nella maggior parte delle sue opere, non derivasse da un fattore estetico ma dal fatto che vedesse giallo nel vero senso della parola, in quanto intossicato dall’assenzio e dalla digitale, un farmaco assunto per l’epilessia. 

Campo di grano Campo di grano con volo di corvi Girasoli  

In Campo di grano con corvi, il colore giallo è ormai riservato al solo grano, scosso violentemente nei campi dal vento e da una tempesta; uno stormo di corvi volta su un cielo terso e tormentato, reso tramite pennellate ampie e rapide, dai toni scuri: non vi è alcun tentativo d’inserire un qualche sparuto sprazzo di luce.

Henri Matisse: come la malattia porta alla scelta di nuove forme Non è solo la malattia mentale a influenzare la produzione artistica: talvolta sono anche le condizioni fisiche a condizionare i modi di realizzazione delle opere. 

Henri Matisse è costretto su una sedia a rotelle dopo aver subito un intervento chirurgico per curare un cancro: l’artista non permetterà però alla sua mobilità limitata di influenzare o limitare la sua creatività. Al contrario, per lui, la malattia è stata quasi un’esplosione di energia che gli ha permesso di riqualificarsi negli ultimi 14 anni in una “Seconda Vita”. Matisse vede nella sedia a rotelle un’opportunità per ripensare e ridefinire le sue priorità, per ritrovare la completa libertà di dire e fare ciò che vuole. 

Matisse ha saputo adattare la sua arte a una nuova vita, facendo di necessità virtù. Ad esempio, ha iniziato a creare schizzi a forma di carta colorata: ritagliava sagome colorate, per poi incaricare i suoi assistenti di incollarli su ampi cartelloni appesi al muro. Per realizzare lo schema e la struttura del lavoro, utilizzava un pezzo di gesso attaccato all’estremità di un bastoncino per poter delineare i primi tratti di un futuro dipinto. 

Il suo “giardino d’arte”, come gli piaceva definirlo, rappresentava per Matisse un luogo in cui riscoprire la propria libertà, limitata a livello pratico dalla disabilità. Incapace di viaggiare e muoversi come una volta, Matisse ha imparato a vivere la bellezza che lo circondava grazie all’arte che è stato in grado di creare con le proprie mani. 

Les nudes: Nu Bleu I The Sheaf Joie de vivre 

Per Matisse il decoupage era prima di tutto una felice soluzione ai problemi pratici posti dalla sua disabilità. Liberate dai confini della tela, queste sagome invadono lo spazio circostante, occupando le pareti, ricoprendole di colore. La bellezza di questi decoupage sta proprio nella loro semplicità. Sono realizzati con materiali semplici e tecniche di base: Matisse trasforma in arte elementi di base come colore, forma e dimensione.

Daumier e la “malattia immaginaria” 

Non è solo la malattia personale ad ispirare la produzione artistica: il pittore, attraverso le sue opere, è in grado di approfondire gli aspetti più oscuri della condizione fisica e mentale dei suoi soggetti. 

Honoré Daumier, The Hypochondriac (Le Malade imaginaire), 1860-1863. Barnes Foundation 

In questa scena chiaroscurale, il caricaturista Honoré Daumier (1808-1879) trasforma la popolare commedia del drammaturgo francese Molière L’invalido immaginario (1673) in una severa rappresentazione del rapporto medico-paziente. Il contrasto drammatico tra luce e oscurità è particolarmente evidente: le due figure sono illuminate dal contrasto con lo sfondo in ombra, oltre a essere messe in evidenza a causa degli scarsi dettagli contestuali (a parte un tavolino a destra con ciotole, cucchiaio e bottiglia, la scena è quasi unicamente occupata dalle due figure umane). Il mantello scuro del medico scompare nell’interno nero della stanza. Le pennellate sottili e traslucide conferiscono un pallore spettrale al paziente, Argan. La mano floscia nella stretta del medico, la testa svogliata di Argan ricade sulla sedia con la bocca aperta e gli occhi vuoti che cadono nell’ombra. L’effetto complessivo è crudo e quasi allucinatorio: ci viene offerto uno sguardo sul terrore dell’ipocondriaco, che sembra malato o addirittura morto ma che sappiamo, dal titolo del dipinto, che sta solo immaginando il suo disturbo.

Honoré Daumier, Two Drinkers (Les Deux buveurs), 1858. Barnes Foundation 

L’ipocondriaco è abbinato a un’altra opera di Daumier, Due bevitori: le due opere hanno impostazione stilistica simile, caratterizzata da una grande enfasi sul disegno, a scapito del contesto. Quest’opera mostra una coppia di uomini dal carattere duro, chini su un tavolino in ombra. Entrambi i dipinti sono sospesi nell’ambiguità: un breve momento di intensa interazione. Lo spazio profondo avvolge gli individui nei due dipinti, e l’artista infonde la tela con colori cupi, luci drammatiche e contrasti scuri. Come L’ipocondriaco, Due Bevitori esplora la dinamica di una relazione una volta che tutto il resto è stato eliminato. 

Acuto osservatore del mondo che lo circondava, Honoré Daumier fu un pittore e satirico francese del XIX secolo che creò migliaia di opere che prendevano di mira la corruzione, le tasse ingiuste e le pretese. La sua opera è diventata sinonimo di commenti umoristici e pungenti sulla borghesia parigina, sul sistema giudiziario e scolastico e sui ruoli di razza e di genere. Altre rappresentazioni dell’ipocondriaco – soggetto a cui Daumier si rivolge ripetutamente – sono più in linea con la reputazione satirica dell’artista. In un’opera conservata al Philadelphia Museum of Art, ad esempio, il medico e il paziente sono più chiaramente definiti come caricature e un assistente porta un clistere comicamente sovradimensionato. A differenza di queste iterazioni comiche che implicano sintomi finti, questa versione straziante de L’ipocondriaco è vista dalla prospettiva del paziente. Gli osservatori sono spettatori della crudeltà della malattia fisica e invisibile.

Honoré Daumier, The Imaginary Illness, c. 1860-1862. Philadelphia Museum of Art. 

Nella versione di Barnes de L’ipocondriaco, Daumier cattura un momento della medicina francese, durante la seconda metà del XVII secolo, quando molti medici si affidavano a salassi e purghe per ricalibrare gli umori. Anche senza questo contesto storico, la composizione di Daumier trasmette un’intensità tra le due figure con una sconfortante oscurità. Appeso alla parete est della Galleria principale del Barnes, accanto a Rembrandt e Cezanne, L’ipocondriaco occupa una posizione centrale nella collezione del dottor Albert Barnes, egli stesso medico. Qui, gli spettatori abitano lo stato di paura del paziente mentre Daumier confonde la mente e il corpo, il fittizio e il reale. 

L’opera è comica e assurda o ritrae l’afflizione e il dolore? Proviamo empatia o condanniamo l’angoscia del paziente? L’ambiguità dell’opera limita la sua capacità di essere catartica? L’ambiguità sullo stato di salute impedisce allo stesso modo la catarsi? Quando, nella medicina moderna, tendiamo a non considerare la sofferenza fisica di un paziente (cioè “il malato preoccupato”) e a considerarla psicologica, distorta o addirittura una farsa? Come possiamo imparare a mettere da parte l’arroganza e a riconoscere l’esperienza vissuta e le vulnerabilità percepite da un paziente come reali, indipendentemente dall’eziologia? 

Daumier stabilisce una relazione tra il medico e il paziente in entrambe le versioni di questa scena. Mentre la caricatura del Philadelphia Museum of Art sottolinea lo squilibrio tra il medico in bilico e il paziente subordinato, il dipinto di Barnes avvolge entrambe le figure nell’oscurità.