La torta della realtà: la morte del lettore.

a cura di Sasha Dell’orto, 5^AL

“Il lettore è un uomo senza storia, senza biografia, senza psicologia;  è soltanto quel ‘qualcuno’ che tiene unite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito.”

Roland Barthes, La morte dell’autore

Ciò che è stato scritto non cambia; tutto in letteratura è immobile. Persino la critica che, nonostante dovrebbe oscillare con le epoche e riflettere la società presente, è riuscita a nascondersi dietro a un termine abbastanza spaventoso da allontanare chiunque possa giudicarla: esegesi. Un poeta non poteva che intendere questo o quello, ora e per sempre. Nascondendosi dietro alla consuetudine, la poesia è ridotta a una bolletta in cui ritrovare sempre le stesse cose: riferimenti storici, letterari, figure retoriche o elementi di stile e poetica.

Forse chi ha dedicato la propria vita a un autore riesce a cogliere qualche sottigliezza che io mai, neanche leggendo una poesia un migliaio di volte, riuscirei a trovare. Ma comunque rimane il dispiacere che a noi studenti sia data la possibilità di indagare con il nostro sguardo solo l’arte contemporanea, quella che l’esegesi non ha ancora avuto occasione di annegare. Libri contemporanei, teatro contemporaneo, film contemporanei: tutti abbastanza nuovi per essere sottoposti a un giudizio inesperto. Date tempo ai critici, ai professori, agli accademici di trovare i collegamenti, i significati, le verità nascoste e vi verrà strappato di mano il vostro giudizio come se non aveste mai avuto il diritto di averlo.

Per questo io preferisco le versioni usate dei testi scolastici di letteratura. Offrono l’esperienza critica di un altro studente: di qualcuno come me. Trovo penetranti le note e i commenti messi da altri; senza dubbio su dettatura di un professore, ma secondo me contenenti una traccia consapevole lasciata da chiunque stesse seguendo la lezione. Io cerco di lasciarla. Seguo questa traccia tra le pagine, nei bordi, nelle sottolineature, nei disegnini fatti in un momento di noia. Seguo la traccia come fosse quella di un critico importante e ne faccio tesoro.

Ripassando per una verifica di letteratura inglese mi sono ritrovato a sfogliare il mio libro usato. Apparteneva a una certa Sara, non so chi sia e mai lo saprò, ma va bene così. Girando le pagine mi è caduto l’occhio su un post-it incollato sopra una poesia. Il post-it legge: “SEGRETO PER SARA”. Sono incantato: una traccia da seguire. E’ piegato a metà come se fosse uno scrigno da aprire e nonostante io non sia Sara mi sento in diritto, da nuovo proprietario del libro, di aprirlo. Il post-it legge:

 “RICORDA SARA DI STUDIARE A MODO QUESTE MERAVIGLIOSE PAGINE di LETTERATURA INGLESE: ALZERAI IL TUO LIVELLO INTELLETTUALE e POTRAI MANGIARE LA TORTA della REALTÀ”

Studiare “a modo” non le poesie, ma le “pagine di letteratura inglese”; allo scopo non di vivere qualche esperienza attraverso l’arte, ma per alzare “il tuo livello intellettuale”. La torta della realtà è un falso ideale. Un premio tanto desiderato quanto materiale: un buon voto in pagella, i complimenti di amici e parenti, la soddisfazione di essere un intellettuale (qualunque cosa voglia dire). Chiunque abbia scritto questa nota per Sara non coglie nelle poesie un modo di vedere la vita con occhi diversi, di scoprire effettivamente qualche realtà umana, ma solo uno strumento didattico, intellettuale: fine a se stesso. Nella torta della realtà io ritrovo tutta la mia disillusione per le materie umanistiche; un sentimento che in verità nasce da un voler amare, ma che al desiderio trova contrapposto uno studio pedante dell’anima.

La matematica, la fisica e la scienza sono materie, per così dire, confinate. Non esiste interpretazione a un equazione: se x=y allora “x è uguale a y”, niente di più, niente di meno (Non che tra i numeri non ci siano sprazzi di genio, persino artistico, ma sono meno evidenti). Per certi versi è questa sicurezza, disambiguità, individualità ad attrarmi alle scienze: mi piacciono le certezze, le navigo bene. La letteratura- come l’arte, e per certi versi anche la filosofia – dovrebbe essere turbolenta. Ho sempre pensato che servisse una certa sensibilità per poterla navigare (e forse sono troppo romantico); ma in realtà, invidiosa delle scienze, anche questa è stata ridotta a una formula. Vita, poetica, opere, analisi. Un mantra che ricomincia con ogni capitolo e che lascia poco spazio alle considerazioni personali. Per lasciarsi trasportare dalle parole.

Ho iniziato l’articolo con l’estratto di un saggio di Roland Barthes “la morte dell’autore”. Barthes argomenta che per dedurre il significato di un testo facciamo troppo affidamento sulla vita dell’autore e sulle sue esperienze. Afferma che qualsiasi produzione è, infine, solo il collage di altre opere, di altre esperienze; mai originale, sempre ereditata dall’infinito contesto culturale della storia umana e che quindi indagare l’artista è inutile. Un po’ come scriveva Foscolo:

“libri composti d’altrui libri a mosaico” *

Si ottiene una visione abbastanza pessimistica della natura umana. Se anche nel fare arte, ovvero nel momento di massima espressione, ci troviamo a copiare da altri allora non siamo altro che un veicolo per messaggi vecchi, per miti tramandati da secoli. Diventiamo macchine che ricompongono diversamente un’unica natura umana per renderla contemporanea; smettiamo di essere soggetti con un particolare squarcio sull’esistenza.

Emerge dal saggio un’eclissi totale dell’autore. Non solo l’autore non si esprime in merito al testo, ma il testo stesso prende vita e fugge da lui come una marionetta che taglia i fili e rivendica la sua libertà. Contemporaneamente il lettore rivendica la propria importanza come punto di raccordo del “segreto”, del “messaggio”, del testo, ma lo fa senza la sua individualità (“Il lettore è un uomo senza storia, senza biografia, senza psicologia”). E’ questa la condizione dello studente immerso nel sistema scolastico, ovvero quella di dover offrire un’interpretazione mai personale, ma sempre in linea con la critica: con il libro di testo.

Nell’uccidere il dogma dell’autore si è creato il dogma del lettore. Non è ora la biografia o la psicologia di chi scrive a determinare l’interpretazione di un’opera, ma neanche quella di chi legge. Il lettore di Barthes si è rivelato essere un’autorità accademica (professori, critici, studiosi ecc.) e noi, comuni lettori, non ci siamo liberati. Abbiamo cambiato padrone, ma rimaniamo schiavi; lo studio pedante dell’anima permane. Ritengo, invece, che tutti abbiano una storia in grado di dare all’arte una particolare interpretazione; questa sarà profondamente personale, certo, ma non vedo come dal particolare non possa scaturire l’universale. In fondo l’arte cattura qualcosa di umano (e questo Bathes non lo nega) quindi non è assurda l’idea di invertire il procedimento di analisi per arrivare allo stesso risultato. La letteratura, in particolare quella dei grandi autori, così diventerebbe nell’immaginario collettivo più aperta. Pensate di chiedere a cento persone di estrazione diversa come una certa poesia si manifesti nella loro quotidianità, non pensate che le risposte saranno simili? Non pensate che si riesca a trarre un’unità dalle molteplici risposte? Io penso di si.

La torta della realtà quindi è davvero una perché una è la natura umana. Ma bisogna tagliarla a fette. Ad ogni lettore la sua fetta di torta: chi al cioccolato, chi alla vaniglia, chi con la frutta e chi con il gelato; solo così nel lettore si può mantenere viva la passione per la condizione umana. Perché se si toglie a chi legge la facoltà di interpretare, a quale scopo si scrive?

Illustrazione di Michelle Wu

*lui faceva riferimento al suo disordine nello scrivere, ma in sé la citazione rende bene l’idea. In più, citare un autore conosciuto nel mezzo dell’articolo mi da l’aria da grande intellettuale quale, con questa nota, confermo di non essere.