Uomo: l’assassino dei mari

I nostri mari sono costantemente minacciati da sostanze inquinanti prodotte dall’uomo. Plastiche ed idrocarburi occupano i primi posti di questa vergognosa classifica. In particolare gli incidenti che coinvolgono petroliere con conseguente fuoriuscita di grezzo, costituiscono la seconda principale fonte di inquinamento del mare. Tra i disastri ambientali a cavallo tra il ventesimo ed il ventunesimo secolo, una costante è infatti quella della presenza dell’oro nero. La petroliera americana Exxon Valdez che nel marzo 1989 si incagliò in una scogliera dell’Alaska,disperdendo in mare 40,9 milioni di litri di grezzo,  segnò solo l’inizio di una successione di catastrofi che negli ultimi decenni sembrano quasi esser diventate una “moda”. Le fuoriuscite di petrolio distruggono in modo irreversibile gli habitat delle specie acquatiche che vi abitavano. Le statistiche oggi ci dicono che a seguito dell’incidente in Alaska morirono oltre mezzo milione di uccelli marini, circa mille lontre, 300 foche, 250 aquile calve e 22 orche, oltre a milioni di pesci tra salmoni e sardine. La National Oceanic and Atmospheric Administration ha stimato inoltre che oltre 26.000 litri di olio aderiscono tuttora ai fondali oceanici. Le conseguenze della perdita a quasi 30 anni di distanza sono ancora visibili e l’ecosistema ritornerà alla purezza originale sono a distanza di secoli. Questo incidente ha mantenuto il triste titolo di peggiore nella storia fino a quando nel 2010 l’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon strappò con grande vantaggio la medaglia d’oro. Per 87 giorni consecutivi il petrolio grezzo si è riversato in mare senza controllo a causa del malfunzionamento delle valvole di sicurezza presenti all’imboccatura del pozzo, a 400 metri di profondità sul fondale marino. Si stima fuoriuscirono dai pozzi l’equivalente di 3 milioni di barili di petrolio ovvero circa 500 milioni di litri. Per comprendere l’entità del disastro basti  pensare che 1 litro di petrolio può ricoprire con uno strato sottile 4000m2 di mare equivalenti a 16 campi da tennis. Gli effetti immediati del disastro furono evidenti: uccelli coperti di petrolio, pesci morti e spiagge coperte di fango nero. Nei primi mesi dalla fuoriuscita si raccolsero quasi 7mila animali morti. Tra questi più di 6.100 uccelli, 69 tartarughe marine, cento delfini e altri mammiferi. Oggi, lo studio della Louisiana State University e della Austin Peay State University dimostra che, nonostante l’area sembri reagire e cominciare a risollevarsi, l’inquinamento rimane ed è anzi più subdolo perché invisibile. Attraverso lo zooplancton i componenti altamente inquinanti sono entrati nella catena alimentare in primis dei pesci e dei più grandi animali marini e successivamente degli uccelli. Il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon  ha avuto nel breve e medio periodo effetti sulla popolazione locale in termini di intensificazione di malattie respiratorie e di aumento statistico dell’incidenza di tumori causato dall’accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare. Non sono inoltre da dimenticare e sottovalutare i danni che l’incidente provocò all’industria locale della pesca e all’industria del turismo. I mari furono vittime di numerosi altri incidenti come quello del Tauranga ( Nuova Zelanda ) nel 2011 che riversò direttamente sulla barriera corallina 350 tonnellate di carburante colpendo animali e specie vegetali già a rischio di estinzione. Secondo gli esperti del NZ Wildlife Health Centre in questa occasione furono i piccoli pinguini blu i più colpiti dalla marea nera in quanto il petrolio penetrò nel piumaggio compromettendo la sua capacità di isolante termico. Recentemente un altro incidente si è potuto aggiungere alla lunga lista. La protagonista è questa volta la petroliera iraniana Sanchi, affondata il 14 gennaio 2018 al largo di Shanghai. La fuoriuscita di grezzo e carburante si è estesa su una superficie di oltre 330 chilometri quadrati secondo l’ultima stima della state Oceanic Administration. L’area in cui la nave è affondata è un’importante area di riproduzione per specie come il calamaro e le megattere e l’habitat in cui svernavano specie come il pesce giallo e il granchio blu. L’interesse per l’ambiente si limita troppo spesso ai giorni dell’incidente, dimenticando che ogni specie marina dovrà lottare per la propria esistenza per un tempo inimmaginabile e soprattutto che le preziose risorse che si perdono, sono perdute per sempre. Secondo recenti studi però è la plastica ad occupare il podio per la maggior minaccia per i nostri mari. Ogni anno si stima che otto milioni di tonnellate di plastica fluttuino negli oceani. L’80% dei rifiuti oceanici è di origine antropica e proviene dalla terra ferma, mentre il restante 20% arriva dalle navi. Se non si cambia lo stile di vita, secondo il rapporto Stemming the Tide, prodotto da Ocean Conservancy, nel 2025 ci potrebbe essere una tonnellata di plastica per ogni tre tonnellate di pesci nell’oceano. Secondo un recente studio sono 690 le specie minacciate dai rifiuti presenti in mare: il 17% di queste sono inserite nelle liste rosse degli animali in pericolo di estinzione, il 92% sono messe in pericolo dalla plastica e il 10% ha ingerito microplastiche. Nel 1960 la plastica era stata trovata nello stomaco di meno del 5 per cento degli uccelli marini, la percentuale era salita già all’80 per cento nel 2010. In base agli attuali trend, si stima che l’ingestione di plastica interesserà addirittura il 99 per cento di tutte le specie di uccelli marini entro il 2050. Gli uccelli scambiano gli oggetti dai colori vivaci per cibo oppure li ingeriscono accidentalmente e l’impatto sulla loro salute può essere devastante: da varie forme di avvelenamento fino alla morte. Tartarughe e cetacei mangiano sacchetti di plastica pensando siano meduse, gli squali scambiano pezzi di plastica per pesci. Nonostante queste osservazioni, gli scienziati non riescono a giustificare come mai così tanti animali, dal plancton alle balene, incappino in questo errore che spesso può essergli fatale. Una motivazione potrebbe arrivare da un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science Advances: la plastica ha lo stesso odore del cibo ovvero quello del krill, creature marine invertebrate che si nutrono di alghe. Gli animali e gli uccelli marini, che usano l’olfatto per procurarsi il cibo, vengono ingannati da quelle che sono definite “trappole olfattive” che li inducono a scambiare la plastica per il krill. La plastica presente negli oceani viene con il tempo trasportata dalle correnti marine dando luogo ad aree con maggior densità di rifiuti. E’ il caso delle numerose isole di plastica galleggianti che si muovono negli oceani. Recentemente è stata scoperta un’isola galleggiante anche nel mediterraneo composta da circa 500 tonnellate di rifiuti di plastica e destinata a crescere sempre di più. L’isola che per le sue dimensioni è diventata tristemente famosa è la Pacific Trash Vortex. A questo nome corrisponde un vortice marino ad altissima intensità promulgatore di inquinamento e capace di attirare rifiuti e spazzatura. Questo singolare fenomeno galleggia nei mari del pacifico al sud di Giappone e Hawaii. L’estensione di questo enorme accumulo di spazzatura galleggiante non è nota con precisione: le stime vanno da 700.000 km² fino a più di 10 milioni di km² (cioè da un’area più grande della penisola iberica a un’area più estesa della superficie degli stati uniti), ovvero tra lo 0,41% e il 5,6% dell’oceano pacifico. In questa zona oceanica si sta accumulando un’enorme quantità di materiali non biodegradabili come plastica e rottami marini. Anziché biodegradarsi, la plastica si fotodegrada, ovvero si disintegra in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono. In alcuni campioni di acqua marina prelevati nel 2001, il rapporto tra la quantità di plastica e quella dello zooplancton, la vita animale dominante dell’area, era superiore a sei parti di plastica per ogni parte di zooplancton. L’isola costituisce un nuovo ecosistema dove la plastica è colonizzata da circa mille tipi diversi di organismi eterotrofi, autotrofi, predatori e simbionti, tra cui diatomee e batteri, alcuni dei quali apparentemente in grado di degradare la materia plastica e gli idrocarburi. Le previsioni sulle condizioni future dei nostri mari sono a dir poco rassicuranti: se non si interviene urgentemente e drasticamente con la riduzione dell’inquinamento e lo smaltimento di quello già presente, rischiamo di perdere per sempre la meravigliosa varietà di vita animale e vegetale del pianeta acqua. E l’uomo non sarà immune a questa catastrofe.

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